Prima di esprimere la mia opinione a riguardo, riporto in modo il più possibile sintetico, le spiegazioni dei più illustri. Vi anticipo solo che è meglio vi mettiate belli comodi, perché ad un certo punto avrete forse più confusione di prima.
TRECCANI
Come si scrive? Se scrivo c’ho e c’hai dovrei pronunciare kò e kài. Quindi, cominciamo col dire che quella grafia non è per nulla convincente, anche se scrittori e giornalisti spesso la usano.
Molti altri, per evitare di cadere nella trappola del “come si scrive in modo corretto” preferiscono utilizzare ci ho, ci hai, ma ben pochi nell’uso comune della lingua pronuncia in modo staccato ci e ho o ci e hai.
Infine, ci sono quelli che preferiscono far combaciare la scrittura con la pronuncia, visto che la nostra lingua è tra le più fedeli all’allineamento segno/suono e utilizzano ciò e ciai, alcuni per allinearsi meglio utilizzano anche la a accentata (ciài). “Piccolo” particolare, il verbo ciavere non esiste.
Come si esprime a riguardo l’ACCADEMIA DELLA CRUSCA?
Le varietà grafiche in uso risultano almeno cinque.
La soluzione c’ho, c’hai, c’ha, c’hanno (nonché c’abbiamo o c’avemo, c’avete, c’avevo e le altre voci del verbo inizianti con a) è predominante nel registro linguistico basso, ma oggi si legge persino su testi di narrativa e sulle didascalie televisive.
La soluzione ci ho, ci hai, ci ha, ecc, risulta preferita da studiosi e cultori dell’italiano, nelle trascrizioni del parlato e nelle trattazioni linguistiche.
Invece, la soluzione c(i) ho, c(i) hai, c(i) ha viene utilizzato in un ambito ristretto e culturalmente elevato; altrettanto si può dire del tipo cj ho, cj hai, cj ha, cj abbiamo e così via.
Non va trascurata infine la soluzione ciò, ciài, cià e così via, che oggi appare relegata nel livello basso della scrittura.
Ora, nessuna di queste soluzioni appare del tutto soddisfacente; il ciò, ciài, cià appare del tutto “dialettale”. A chi utilizza il c’ho va rimproverata l’anomala resa grafica della pronuncia palatale di c seguita da h oppure a. Usare il ci ho è prodotto dal fatto che la conservazione della lettera “i” induce a pronunciare una vocale che non si ritrova nel parlato. Invece, la grafia tipo c(i) ho, che ricorre in circuiti culturali elevati, trascrive correttamente il parlato, ma appare difficilmente praticabile nell’uso comune, in quanto gravata dalla parentesi, che è artificio alquanto ingombrante, oltre che insolito. Resta la soluzione tipo cj ho: l’impiego della lettera “j” con funzione diacritica è sì anomalo, ma ha il pregio di non ingenerare equivoci e di non apparire ingombrante oltre misura. La sua adozione è recente e finora limitata alle trascrizioni e ai saggi dei linguisti Tale soluzione tuttavia non è certo ideale, specialmente nell’uso comune, ma preferibile a ogni altra.
Possibile che non ci sia una linea comune per tutti?
La risposta è NO!
Non esistono modelli di riferimento e tantomeno testi che dissolvano dubbio.
Nella nostra lingua possiamo scrivere obiettivo, perché vicini alla lingua latina, ma anche obbiettivo che non è da considerarsi errore, in quanto riflettiamo il normale sviluppo fonetico di B+IOD intervocativo latino, che dà in italiano doppia b+i, ma per questo abbiamo una spiegazione.
Oggi la narrativa e le scritture brillanti (dal giornalismo ai blog tenuti da persone che sanno scrivere) hanno dato maggiore visibilità a fenomeni come ci + avere perché la censura tradizionale verso le forme del parlato meno sorvegliato e più informale, si è in gran parte attenuata negli ultimi decenni.
Nella scrittura colta, che vuole imitare tratti del parlato o nella scrittura informale e ludica tipica di tante interazioni in rete, non costituisce “reato” l’uso di ci + avere. Nel caso dello scritto, però, rimane l’insoddisfazione di una grafia che, in un modo o nell’altro, non centra l’obiettivo. Anche se, forse, un giorno, la comunità degli scriventi utilizzerà una linea comune di normalità.
Cercherò ora di sintetizzare in modo leggermente più tecnico quanto finora descritto:
Partiamo da c’ho: sappiamo bene che si usa il grafema h quando il suono di c è velare, cioè duro, ad esempio in parole come cherubino, chiesa, ghiro ecc.
Con c + a, o invece il grafema h non serve: il suono c infatti è già duro in parole come cane, gatto, costa, gongolare ecc. Se partiamo da questo presupposto è chiaro che h non ha senso di esistere in c’ho perché non viene usata tra c e o.
Ora vediamo la scelta di utilizzare il ciò: non si confonde forse con ciò pronome dimostrativo? Generalmente la lingua scritta segue delle regole ben precise rispetto a quella parlata e non è gradito sicuramente trovare soluzioni che possano confondere, perché riferite a due situazioni completamente diverse.
Totalmente diversa, è invece la scelta di utilizzare ci ho: in questo caso l’uso del grafema (i) non riflette affatto la pronuncia che vorremmo trascrivere, quindi è tutt’altro che utile.
Esistono in realtà altre due soluzioni: una è c(i) ho fame, c(i) ha sete, c(i) abbiamo sonno e così via, ma sembra poco destinata a diffondersi nella lingua comune per via dell’impiego delle parentesi, e l’altra è cj ho, quindi con l’uso di j a indicare che c è un suono palatale, dolce, e non velare.
C’avevo o ci avevo? Non esistono indicazioni precise e rispetto a quanto sopra descritto nulla cambia.
Tutte le soluzioni fino ad ora prese in considerazione non soddisfano tutti allo stesso modo, tenendo in considerazione la propria consapevolezza linguistica.
Come risolvo io il dilemma?
Molto più semplicemente di quello che si possa pensare.
Perché devo scegliere, quando basta usare i semplici “ho” “hai” “abbiamo” senza complicarci la vita? Sempre che non debba scrivere in dialetto romanesco dove il ciò, ciai sono quasi d’obbligo.
Se nel 90% dei casi posso evitare il problema, perché non posso aggirare il restante 10%?
Farlo è ugualmente semplice, basta che formulo la frase in modo diverso. Ci riesco sempre!
Inorridisco di fronte al c’ho, mi rimane bloccato in gola; se dico ci ho mi sembra una forzatura; ciai è decisamente più simpatico, ma lo utilizzerei per un colloquio tra amici, soprattutto romani, se proprio, metterei la “j” perché mi ritengo una sopravvissuta e come spiega l’Accademia della Crusca è il domani della scrittura; preferisco non esprimermi sul c(i)hai con la parentesi, sarà anche la scrittura dei più eruditi, ma leggere tra le parentesi mi farebbe perdere il fascino della lettura: È come quando per indicare che un testo è destinato a uomini e donne ultimamente si usa l’asterisco (ragazz*) invece di “ragazzo/a”. Al momento non lo prendo in considerazione.
Ritorno sempre al discorso: perché? Quando posso tranquillamente evitare tutto questo.
Vi garantisco che si può!
“C’ho riflettuto” può diventare: “ho riflettuto”; o “ci ho riflettuto” che ad orecchio è armonioso. Non lo è invece “ci ho parlato”. Come cambio? Cosa dite di: “ho parlato con lui o lei?”
“Noi ci abbiamo un cane” o è meglio “noi abbiamo un cane?” La c con l’apostrofo si può tranquillamente eliminare.
A volte basta solo andare a orecchio o usare del semplice buonsenso.
Secondo me quando il ci si riferisce alla l
persona plurale si può scrivere ci ha.
Viceversa quando si riferisce alla prima persona singolare può andare bene i c’ho.
Tra tutte le scelte quella che non userò mai è proprio il c’ho che viene inevitabilmente sempre letto “Ko”.
Le varie alternative ci sono e ritengo le ultime che ho elencato le più significative e corrette. Nella scrittura preferisco sempre ciò che riesco poi a leggere in modo fluido.